5. La dualità fra l'astratto e il concreto nella psicanalisi e il problema della psicologia concreta |
È dunque ben vero che la psicanalisi presenta una dualità essenziale. Essa preannuncia, con i problemi che si pone e col modo in cui orienta le sue ricerche, la psicologia concreta, ma in seguito la smentisce con l'astrattezza delle nozioni di cui fa uso o che essa stessa crea, e con gli schemi di cui si serve. E si può dire senza alcun paradosso che Freud è altrettanto straordinariamente astratto nelle sue teorie quanto è concreto nelle sue scoperte. Ecco qual è il risultato delle analisi che precedono. Ora, sarebbe troppo semplice — abbiamo già detto — spiegare questo contrasto con la mancanza di chiarezza o di coerenza del pensiero di Freud. Gli errori di questo genere corrispondono sempre a delle necessità storiche e vanno al di là della potenza della logica individuale. Ma proprio perché le cose stanno così non può esistere una vera e propria soluzione di continuità fra gli errori e la stessa verità: dopo aver condannato, per delle necessità metodologiche, l'atteggiamento astratto, la critica deve far vedere come, affinché non sussista alcun mistero, l'atteggiamento di Freud rappresenti, nell'evoluzione che ha come sbocco quello di mettere in evidenza l'atteggiamento concreto, una tappa necessaria. Ma ci si può venire a dire che noi rendiamo il nostro compito davvero troppo facile. Non abbiamo infatti l'aria di accorgerci che il fatto stesso della dualità in questione rischia davvero di compromettere tutta la nostra impresa, per lo meno nella misura in cui vogliamo presentare non tanto una psicologia concreta che avremmo immaginato a priori, ma precisamente quella che ci proviene dalla psicanalisi. In effetti, il modo in cui noi interpretiamo la dualità in questione non è forse l'unico possibile. Questa dualità può altresì provenire dal fatto che noi interpretiamo la psicanalisi in un modo che è esatto soltanto fino ad un certo punto, e la dualità sarebbe allora relativa ad un'interpretazione che, non essendo un'interpretazione valida di tutta la psicanalisi, la scinde necessariamente in due parti, la seconda delle quali ci dà la misura precisa dell'inesattezza della concezione che noi abbiamo della psicanalisi. Gli interpreti delle grandi dottrine filosofiche, ad esempio, non avevano forse ammesso spesso delle dualità di questo genere, unicamente grazie a delle idee preconcette e a delle comprensioni unilaterali? E non è forse vero, d'altra parte, che noi abbiamo dovuto, per mettere in evidenza quella che abbiamo chiamato l'ispirazione concreta della psicanalisi, deformare continuamente le formule di Freud stesso? Ora, queste deformazioni sono possibili e possono apparire fino ad un certo punto legittime, ma presto o tardi viene necessariamente in luce l'artificiosità di un simile metodo. Ed è allora che deve apparire l'illusione della dualità. Non è sufficiente, stando così le cose, dimostrare la necessità storica di quelli che noi chiamiamo gli errori di Freud. Tale dimostrazione, infatti, può ancora una volta non essere altro che una parafrasi della nostra illusione. Bisogna andare più lontano: occorre dimostrare, e questa volta senza toccare le formule stesse di Freud, che le speculazioni freudiane, nonostante la forma tecnica che è interamente rivolta in direzione dell'astrazione, implicano anch'esse un atteggiamento che non ha che da essere riconosciuto e sviluppato nella sua purezza per diventare quello della psicologia concreta. Una simile dimostrazione è possibile. Ma questa possibilità non fa che aumentare il pericolo che scaturisce per noi da quella dualità che abbiamo dovuto riconoscere all'interno della psicanalisi. Se infatti, da un lato, le speculazioni teoriche di Freud non rappresentano che un atteggiamento già concreto, ma che si nasconde dietro una forma tecnica che è astratta, e se, d'altra parte, questo nascondersi è necessario, quella che viene rimessa in discussione non è più l'esattezza della nostra interpretazione, ma la sufficienza della concezione che abbiamo della psicologia concreta. Ci si può dire, infatti, che la psicologia concreta, quale noi pretendiamo di vederla alla base della psicanalisi, è ben capace di rivelarci cose che sono rimaste inaccessibili alla psicologia classica, ma quest'ultima, a sua volta, si prende la rivincita dal momento in cui si tratta di compiere l'elaborazione teorica, in modo tale che il cosiddetto ritorno all'astrazione può non essere altro che la rivelazione dell'impotenza teorica della nostra psicologia concreta. Allora delle due l'una: o noi abbiamo colto realmente l'essenza della psicologia concreta, ma allora la dualità che abbiamo constatato ci rivela appunto come questa psicologia abbia bisogno di far ricorso all'apparato teorico della psicologia classica il quale allora, lungi dall' essere condannato, riceve una nuova vitalità, e, cessando di essere irriducibile la contrapposizione fra le due forme della psicologia, crolla la nostra tesi fondamentale; oppure, se teniamo assolutamente alla morte della psicologia classica, quella che viene a perdere ogni interesse è la nostra concezione della psicologia concreta, dal momento che essa appunto si dimostra incapace di capire quel dramma che ha la pretesa di studiare. Per di più, se veramente la psicanalisi preannuncia quella psicologia concreta di cui noi abbiamo dato la definizione, essa, alla luce della nostra stessa interpretazione, si dimostra abbastanza priva di interesse, poiché si presenta appunto come un tentativo abortito in più. In poche parole, da qualunque parte ci si volga, quella dualità, la cui constatazione poteva sembrarci a tutta prima come una vittoria del nostro metodo, ne rappresenta in realtà soltanto la sconfitta. È evidente come questi argomenti non valgano se non nel caso in cui la dualità in questione fosse veramente assoluta, cioè nel caso in cui noi non fossimo capaci di far vedere veramente all'opera la psicologia concreta quale l'abbiamo definita, non soltanto cioè quando si tratta della definizione del fatto e della concezione del metodo, ma anche della stessa comprensione del dramma umano. Ma tali argomenti devono cadere se possiamo dimostrare che, ben lungi dal soffrire di un'impotenza teorica, la psicologia concreta ha già cominciato ad elaborare le sue nozioni fondamentali. 1. Il contrasto esistente fra la concezione concreta del fatto e del metodo, da un lato, e l'andamento astratto delle spiegazioni, dall'altro, si spiega in Freud innanzitutto con il modo in cui egli stesso concepisce i rapporti fra la psicologia e la psicanalisi. Freud, infatti, parte dall'idea secondo cui la psicanalisi è un processo particolare il quale, pur permettendo di trovare dei risultati nuovi cui non si sarebbe mai potuto arrivare attraverso i metodi della psicologia classica, non approda alla «psicologia» stessa dei fatti in questione. La sua idea fondamentale è che la psicanalisi e la psicologia si trovano su due piani diversi: l'atteggiamento psicanalitico è cosa del tutto diversa dalla ricerca della stessa psicologia dei fatti e, d'altra parte, la ricerca della spiegazione psicologica implica l'abbandono dell'atteggiamento propriamente psicanalitico. Un simile atteggiamento trova largo spazio nella Traumdeutung: dopo aver descritto quei fatti che la psicanalisi permette di scoprire, Freud ricerca in un capitolo a parte la loro spiegazione, e precisamente nel capitolo intitolato «La psicologia dei processi del sogno». Fino a quel punto si trattava di interpretare e di analizzare il sogno, ora si tratta di spiegarlo. «Finora ci siamo occupati essenzialmente di riœrcare il significato nascosto dei sogni, quale sia la strada per tovarlo, e quali siano i mezzi che vengono usati dal lavoro onirico per tenerlo nascosto. Finora quelle che erano al centro del nostro interesse erano le esigenze dell'interpretazione dei sogni» (4a ediz. tedesca, p. 404). Ora si tratta di incamminarsi «su di una nuova strada»: capire il sogno in quanto fenomeno psicologico. Ora, spiegare un fatto psicologico significa per Freud ricondurlo a leggi psicologiche note. Infatti, a proposito della regressione, dice: «Non abbiamo ancora spiegato questa caratteristica del lavoro onirico, né l'abbiamo riferita ad alcuna legge psicologica nota» (p. 525). Di conseguenza, la parte teorica dell'impresa di Freud si presenta subito come un tentativo di ricondurre i fatti psicanalitici alla psicologia classica, e quello che ai nostri occhi è sembrato come un cambiamento di orientamento assolutamente radicale si presenta in Freud nel modo più naturale possibile: per il solo fatto che si vuole ricercare la spiegazione, ci si trova ricondotti alla psicologia classica. Stando così le cose, l'originalità della psicanalisi potrà venir tradotta sul piano della spiegazione soltanto per il fatto che, nella psicologia classica, non vi è nulla di pronto che possa ricevere i nuovi fatti scoperti da Freud. «Non c'è possibilità di spiegare i sogni come processi psichici, poiché spiegare una cosa significa riportarla a qualcosa di già noto e non ci sono attualmente nozioni psicologiche definite alle quali potremmo sottoporre ciò che l'esame psicologico dei sogni ci permette di dedurre come base per la loro spiegazione» (p. 491). Soltanto che questa insufficienza non è costitutiva, non rivela un'impotenza originale e definitiva, ma semplicemente un'imperfezione momentanea cui si può porre rimedio. Ma qualunque possa essere l'estensione e la novità del lavoro di ampliamento che si rende necessario, questo lascerà intatti i fondamenti stessi della psicologia classica. Tutto il risultato della novità delle scoperte psicanalitiche consiste dunque nell'obbligo di «fare nuove ipotesi che sondino la struttura dell'apparato psichico e il gioco delle forze che in esso agiscono». Basta poi gettare uno sguardo sulle «implicazioni» che Freud sviluppa e sulle ipotesi che egli fa per vedere come per lui si tratti esclusivamente di erigere una costruzione che sia conforme all'ideale scientifico degli psicologi della fine del XIX secolo. Questo ideale scientifico è ben noto: i suoi aspetti principali sono costituiti da chimere fisiologiche, energetiche e quantitative. Ciò che si ricerca è un meccanismo psichico che ricordi gli schemi di cui si serve la fisica nelle sue spiegazioni, restando salvo il fatto che, in seguito al movimento energetista in fisica, anche gli psicologi hanno abbandonato i modelli meccanici per orientarsi maggiormente verso gli schemi energetisti. Freud, a volte, esprime questo ideale classico nel modo più ingenuo: «Libido — egli dice — è una parola che noi abbiamo preso a prestito dalla teoria dell'attività. Con esso noi designiamo l'energia (intesa come grandezza quantitativa, ma che non siamo ancora in grado di misurare) delle tendenze che si connettono a ciò che noi chiamiamo complessivamente con la parola amore». E le argomentazioni del nostro capitolo III mostrano a sufficienza con quanta ingegnosità Freud cerchi di realizzare tale ideale. È dunque chiaro che lo stesso Freud non ha mai messo in discussione l'edificio centrale della psicologia classica. I metodi di quest'ultima possono anche essere imperfetti, gli psicologi classici hanno anche potuto dimostrarsi pieni di pregiudizi e limitati su certe questioni, ma tutto ciò può rimettere in dubbio tutt'al più le tesi, e non i fondamenti: la psicologia classica, certamente, deve essere sottoposta ad un lavoro, ma soltanto ad un lavoro di revisione e di ampliamento. Ora, una volta che si sia imboccata questa strada, è impossibile fermarsi, e mai, in nessun momento, potrà esplodere l'incompatibilità esistente fra i fatti nuovi e la psicologia antica, dal momento che sarà sempre possibile spingere ancora più a fondo l'articolazione e l'ampliamento delle sue ipotesi e delle sue nozioni. Ecco perché Freud non può fare altro, appunto, che il lavoro speculativo nello stesso modo in cui l'ha preannunciato, senza potersi mai rendere conto di rifare a ritroso la strada che ha percorso con le proprie scoperte. E se, eseguendo questo lavoro puramente formale, che consiste nello svolgere qualche schema in modo meccanico, si può veramente pensare di aver spiegato, ciò può avvenire soltanto grazie al fatto di essere rimasti «fissati» appunto all'ideale scientifico della psicologia classica. L'impresa di Freud, considerata nella sua fase teorica, rappresenta dunque l'antitesi della nostra. Per noi si tratta di sviluppare quella psicologia che è contenuta nei fatti e nel metodo psicanalitico, mentre, per Freud, quello che si pone è il problema inverso: quale sia la psicologia classica dalla quale possono venir dedotti i fatti psicanalitici; e, dal momento dressa non esiste, bisogna inventarla. Ora è evidente, a prima vista, che l'atteggiamento di Freud è il primo che si impone e che ciò accade nel modo più naturale. Con l'aiuto della psicanalisi si scopre un certo numero di fatti: essi vengono immediatamente considerati come fatti della vita interiore. Questa idea è talmente naturale che esistono dei testi in cui Freud considera la stessa libera associazione come una forma della riflessione o dell'introspezione. È sottinteso, stando così le cose, che tutti gli apporti che ci provengono dalla psicanalisi non sono altro che delle informazioni su quella realtà interiore di cui la psicologia classica si propone lo studio: ogni progresso nelle scoperte psicanalitiche diventa allora necessariamente un motivo per spingere più a fondo lo sviluppo delle nostre idee sull'«apparato psichico». Data questa «fissazione» sull'ideale della psicologia classica, che è generale nella sua epoca, Freud è necessariamente condotto ad assumere quell'atteggiamento che abbiamo appena descritto. La sola cosa che avrebbe potuto impedirglielo sarebbe stata quella di allontanarsi appunto da quell'ideale. Ma ciò gli fu impossibile, dato che egli pone alla psicologia classica un problema puramente formale che, per il modo stesso in cui è stato posto, non soltanto quest'ultima, ma neppure un qualsiasi insieme teorico, vero o falso che sia, può facilmente risolvere. Infatti Freud giunge alla psicologia partendo dalla psicanalisi. Ma, quando vi giunge, le sue scoperte sono già state fatte ed il suo atteggiamento non è più creativo, ma puramente disinteressato: egli non si attende dalla psicologia il compimento di un'opera veramente feconda e veramente produttiva, ma semplicemente l'inserimento delle scoperte già fatte in una rete di nozioni e di ipotesi. E così Freud non può constatare quella che è la sterilità fondamentale della psicologia, dal momento che pone ad essa un problema la cui soluzione implica soltanto una «dilatazione» della psicologia stessa. L'atteggiamento di Freud era dunque inevitabile per due ragioni. Innanzitutto perché, date le idee fondamentali dell'epoca, le scoperte psicanalitiche appaiono immediatamente come dei fatti psicologici nel senso classico della parola, e poi perché, approdando alla psicologia una volta che è già terminata l'opera veramente creatrice, non può venire nettamente in luce l'impotenza della psicologia. In altri termini, uno psicanalista puro, la cui occupazione essenziale consiste nella pratica stessa del metodo psicanalitico, doveva necessariamente giungere a quella contraddizione che noi abbiamo segnalato nell'opera di Freud. Diversamente stanno le cose per chi, anziché andare dalla psicanalisi alla psicologia, vada dalla psicologia alla psicanalisi. Venendo infatti posto l'accento sulla psicologia stessa, non ci si occupa di questa una volta che sia già terminata l'opera di creazione, per accontentarsi di quell'ingannevole operazione che consiste nell'elaborazione a cose fatte delle ipotesi allo scopo di spiegare dei fatti che sono stati appunto scoperti senza che queste ultime fossero intervenute, ma è dalla psicologia stessa che ci si aspetta la potenza e la fecondità. La storia della psicologia ed i suoi attuali impegni stanno a dimostrare che mai la concezione classica del fatto e del metodo avrebbe permesso di porre i problemi in quello stesso modo che ha permesso agli psicanalisti di fare delle scoperte proprio in quei campi in cui i metodi classici avevano fallito. È evidente, stando così le cose, che le scoperte della psicanalisi presuppongono una concezione della psicologia che non può coincidere con la psicologia classica, e pongono così un nuovo problema, che consiste non nel sapere di quali speculazioni complementari occorre servirsi per ricondurre i fatti nuovi agli schemi antichi, ma nel sapere quale sia precisamente quella nuova psicologia che ha reso possibili tali scoperte. È questo appunto l'atteggiamento che abbiamo adottato nella presente opera. Soltanto, questo atteggiamento presuppone quello di Freud e non poteva venire se non dopo di esso. Infatti sono proprio gli psicanalisti quelli che prima di chiunque altro hanno fatto quelle scoperte la cui analisi conduce alla psicologia concreta, e dovevano pur cominciare col tentare di dare loro stessi una spiegazione. E quest'ultima non poteva non portare, per le ragioni che abbiamo visto, alla dualità fra l'ispirazione fondamentale e l'apparato teorico. Ma, d'altra parte, questa stessa dualità era necessaria perché potesse nascere un'impresa come la nostra. Dinanzi allo spettacolo della ricchezza delle scoperte psicanalitiche e della povertà della psicologia classica, le speculazioni astratte della psicanalisi costituiscono un paradosso che richiede imperiosamente la critica. 2. Dato il modo in cui viene posto da Freud il problema della spiegazione, l'originalità della psicanalisi può soltanto rivelarsi, come abbiamo detto poco fa, con la necessità di ampliare le nozioni della psicologia classica, e di introdurvi ipotesi nuove, ma conformi con i procedimenti fondamentali di quest'ultima. Dal momento che tuttavia i lavori nozionali devono modellarsi proprio sui fatti nuovi che sono stati portati dalla psicanalisi, sarebbe cosa sorprendente se, a dispetto del loro andamento astratto, essi non conservassero qualcosa di quell'ispirazione concreta che ha permesso la nascita delle scoperte. L'inconscio ci è apparso finora come il colmo dell'astrazione. Ciò è perfettamente vero: esso deve la propria origine a quei procedimenti che noi chiamiamo astratti; sono essi che lo generano e senza di essi non può avere alcun senso. Ma esiste alla base di ogni teoria, e posto più in profondità di quei procedimenti che danno ad essa una forma tecnica, un atteggiamento generale grazie al quale la teoria in questione può andare al di là di quello che è il suo significato dogmatico. Tale è appunto il caso dell'ipotesi dell'inconscio: per quanto il suo aspetto tecnico sia incompatibile con la psicologia concreta, la sua accettazione implica un atteggiamento che è del tutto contrario all'ideale della psicologia classica. Ciò che caratterizza essenzialmente l'inconscio in generale e anche indipendentemente dalla teoria freudiana è il fatto che esso si riferisce a dei fatti psicologici dei quali il soggetto non ha una conoscenza diretta, o che non gli vengono dati attraverso un'intuizione immediata. Di conseguenza, l'introduzione dell'inconscio significherà la fine dell'egemonia dell'introspezione, dal momento che, appunto, i fatti inconsci, pur essendo psicologici, sfuggono alla coscienza e, per questo stesso fatto, a qualsiasi tipo di introspezione, e si ammette così l'esistenza di tutto un insieme di fatti psicologici che non sono dati «per sé», e per la constatazione e lo studio dei quali bisogna ricorrere ad altri metodi. Ma ciò che è importante di questa conseguenza dell'introduzione dell'inconscio non è tanto il fatto che si sia costretti a rinunciare all'introspezione. Gli psicologi classici non hanno difficoltà a far ciò, e spesso abbandonano l'introspezione per dei metodi «oggettivi», fisiologici, biologici e simili. Ma occorre notare che in tali casi, e per ammissione degli stessi psicologi ai quali alludiamo, si tratta di abbandonare anche il campo stesso dello psichico. Quando infatti si abbandona in tal modo l'introspezione per uno qualsiasi dei metodi «oggettivi», ciò accade sempre in virtù di una definizione o di una ipotesi che permette di dare alle eccitazioni ed alle reazioni fisiologiche, o all'aspetto puramente motorio dei comportamenti, un posto, e persino tutto il posto, in psicologia. Ed allora l'introspezione non viene abbandonata per studiare con dei metodi oggettivi gli stessi fatti psicologici, ma soltanto dei fatti oggettivi che possono essere stati messi in relazione con i primi. E ciò è tanto più vero quanto più, ogni volta che si tratta dello «psichico» stesso, si è costretti, volenti o nolenti e con un pretesto o con un altro, a ritornare all'introspezione. I L'ipotesi dell'inconscio, invece, significa che l'introspezione è jì divenuta insufficiente per l'esplorazione dello stesso psichico. Infatti per tutti coloro che hanno ammesso l'inconscio psicologico, questo significa un insieme di fatti che sono altrettanto realmente ed attualmente psicologici quanto i fatti coscienti, «a parte il fatto», come dice Freud, «che manca loro la coscienza». Non si tratta allora di rinunciare all'introspezione perché si vuol dare un significato psicologico a dei fatti oggettivi, ma perché è lo psichico stesso che va al di là del «per sé». È proprio per questo fatto che l'inconscio, in un certo senso, preannuncia già la psicologia concreta. Innanzitutto una psicologia che si serve della nozione d'inconscio dovrà rinunciare a sostenere integralmente la natura privilegiata della conoscenza psicologica. Non si potrà più affermare, infatti, che essa è unica nel suo genere per il fatto che coglie immediatamente il proprio oggetto, e che è proprio in questo «cogliere» che consiste la caratteristica tipica del fatto psicologico, visto che esistono appunto dei fatti che, pur essendo psicologici, si trovano al di fuori del «per sé». Essi non possono dunque venir conosciuti se non in un modo mediato, o grazie all'intervento di un osservatore esterno, o grazie a dei processi di ragionamento analoghi a quelli di cui si servono le altre scienze. In altre parole, benché l'inconscio appaia, in un certo senso, più misterioso del conscio, in un altro senso, tuttavia, esso rappresenta il primo passo nell'opera di distruzione del mistero psicologico. Infatti, per certi fenomeni psichici per lo meno, il soggetto della conoscenza non si trova in una situazione più privilegiata di come quando si trova di fronte ad un qualsiasi oggetto. Per questo stesso fatto gli psicologi fautori della nozione d'inconscio perdono necessariamente l'abitudine di considerare tutti i fatti psicologici come i dati semplici di una percezione sui generis, dal momento che i fatti inconsci devono essere costruiti, o per lo meno ricostruiti. Si giunge così, all'interno della psicologia classica, ad una dualità che costituisce un potentissimo fermento dialettico. Dopo l'introduzione dell'inconscio, infatti, non si può definire il fatto psicologico attraverso il «per sé»: la definizione classica del fatto psicologico viene rimessa in discussione proprio sul piano stesso dello psichico. Ci si trova allora di fronte a due specie di «psichico» : il primo la cui conoscenza costituisce una «percezione», ma anche un secondo che non è più altro che una costruzione, uno che continua ad essere definito attraverso il «per sé», e l'altro che è impossibile definire in questo modo. Ma è evidente che i fatti psicologici, consci o inconsci che siano, partecipano della stessa essenza, e questa essenza è situata più profondamente della coscienza, dal momento che i fatti consci possono, senza perdere la loro essenza psicologica, diventare inconsci. E proseguendo le ricerche in questa direzione, ci si trova necessariamente condotti a definire i fatti psicologici indipendentemente dal «per sé», cioè indipendentemente da una percezione sui generis, ed il problema che allora si pone è il problema stesso della psicologia concreta: definire lo psichico in quanto psichico, cioè evitando ogni confusione con la fisiologia, la biologia od. ogni altra scienza della natura o dell'uomo in quanto natura, facendo nello stesso tempo astrazione dall'ipotesi secondo cui lo psichico ci viene dato attraverso una percezione sui generis. In altri termini, è impossibile ammettere simultaneamente uno psichico che viene dato ed un altro che viene costruito, e l'idea che esista uno psichico costruito invita alla generalizzazione, e si è allora condotti necessariamente a cercare altrove l'originalità dello psichico, altrove da quell'originalità per così dire chimica che si trova alla base della definizione classica. In breve, l'atteggiamento fondamentale che si trova alla base dell'ipotesi dell'inconscio contiene già la negazione del realismo psicologico, e lo sviluppo conseguente di questa ipotesi avrebbe portato alla ricerca di una definizione del fatto psicologico che escludesse il realismo. Solfato, la psicologia classica non è mai arrivata né a riconosce il vero significato dell'ipotesi dell'inconscio, né a sviluppare sistematicamente le sue conseguenze, e dopo aver posto la dualità in questione, l'ha semplicemente mantenuta. Visto, infatti, il carattere profondamente astratto della psicologia classica, il realismo è potuto intervenire per arrestare quel movimento che avrebbe avuto come conseguenza la sua stessa distruzione. Dopo aver posto, infatti, l'inconscio a fianco del conscio, la difficoltà è stata aggirata facendo della coscienza una «qualità» che si può aggiungere o no allo «psichico», ed allora la dualità viene risolta definendo il fatto psicologico, in conformità con il realismo, semplicemente mediante lo psicologico «puro», ma la cui originalità, beninteso, rimane «chimica». Freud, per ragioni che abbiamo spiegato sopra è indotto a dare all'inconscio un ruolo ed un posto che sono assai più importanti di quelli che gli avevano dato gli psicologi classici. Di conseguenza troveremo in Freud, da un lato, uno sviluppo più rigoroso delle implicazioni puramente tecniche dell'ipotesi, e, dall'altro, una approssimazione ancora maggiore alla psicologia concreta, nel senso che abbiamo indicato poco fa. La teoria freudiana comporta, dal punto di vista tecnico, due affermazioni: 1) La coscienza non è che un organo superiore di percezione; 2) L'inconscio, relativamente alla coscienza, è trascendente. Una parte per lo meno della prima affermazione è già implicita nella nozione stessa di inconscio. Infatti, il solo fatto di introdurre l'inconscio implica l'ampliamento della definizione del fatto psicologico, e questo verrà definito, in virtù del realismo, come lo psichico in generale la cui esistenza non richiede necessariamente la coscienza. L'acquisizione, per lo «psichico», del carattere conscio, può allora venir facilmente assimilata ad una percezione, appunto perché, essendo l'essere stesso dello psichico indipendente dalla coscienza, diventa applicabile lo schema della percezione. Ma l'affermazione secondo cui la coscienza è unicamente un organo di percezione implica già la psicanalisi. Infatti nella psicologia classica l'inconscio non svolge un ruolo abbastanza importante perché non si possa dire che, oltre ai fatti per i quali la coscienza è soltanto un organo di percezione, ne esistono altri dei quali essa costituisce l'essere stesso. Ma l'atteggiamento di Freud deve essere molto più radicale. La psicanalisi, infatti, è stata costretta a collocare nell'inconscio tutti i processi importanti e veramente determinanti, in modo che, potendosi ad esempio spiegare il sogno in tutti i suoi particolari mediante delle attività preconscie o inconscie, alla coscienza non resta altro, appunto, che la percezione pura e semplice dello psichico. La seconda affermazione è fondata su considerazioni psicanalitiche; risulta infatti, dalle analisi di Freud, che lo psichico non viene ammesso alla percezione della coscienza se non a determinate condizioni. Di conseguenza, essendo la percezione dello psichico necessariamente relativa a queste condizioni, l'inconscio stesso è un inconoscibile2. Queste due affermazioni fondamentali della teoria freudiana dell'inconscio non fanno altro che accentuare il progresso dalla psicologia astratta verso la psicologia concreta, e viene quindi quasi interamente messo in evidenza anche quell'atteggiamento che abbiamo trovato alla base dell'ipotesi dell'inconscio. Non si tratta più di dire che insieme ai fenomeni coscienti occorre prendere in considerazione anche i fenomeni inconsci. Risulta, al contrario, dalle analisi di Freud, che la coscienza non può insegnarci nulla che ci interessi veramente, poiché tutto ciò che importa conoscere per la spiegazione appartiene o al preconscio, o all'inconscio. E lungi dal potersi fermare alla coscienza, lo psicanalista deve appunto cominciare ad andare oltre: se vogliamo capire il sogno, dobbiamo abbandonare il contenuto manifesto ed andare verso il contenuto latente. Non si può dire, stando così le cose, che l'introduzione dell'inconscio rompe su di un punto particolare l'egemonia dell'introspezione. Visto qual è il ruolo dell'inconscio nella psicanalisi, l'introspezione non costituisce più per nulla un metodo scientifico nel vero senso della parola, poiché ciò che può esser conosciuto attraverso l'introspezione non è ancora una conoscenza psicologica: lo psicanalista non si ferma all'«introspezione» del contenuto manifesto. In tal modo lo psicologo non si trova più di fronte a due categorie di fatti, gli uni conosciuti in modo immediato e gli altri conosciuti in modo mediato, dal momento che tutti i fatti che sono veramente efficaci si trovano nell'inconscio. Per lo stesso motivo lo psicologo non avrà più a che fare con delle conoscenze mediate: il mistero della conoscenza psicologica è interamente scomparso e lo psicanalista dovrà inventare un metodo che, pur non essendo né fisiologico né biologico, essendo cioè esclusivamente psicologico, sia tuttavia una cosa del tutto diversa dall'introspezione. Questo metodo consiste nella tecnica psicanalitica che è appunto «la via maestra che porta alla conoscenza dell'inconscio». Possiamo così veramente dire che si è avuta una rivoluzione «copernicana»: tutto l'interesse degli psicologi si è spostato dai dati della percezione psicologica immediata verso i dati che non possono più in nessun caso essere considerati come tali, ma che sono costruiti, e per questo stesso fatto si trova rimessa in discussione tutta l'ideologia della psicologia classica. Soltanto, ancora una volta, o, piuttosto, un'ultima volta, il realismo interviene per impedire la propria distruzione. Si continueranno ad interpretare i dati mediati, di cui si occupano gli psicologi, come riconducibili ad una realtà e, scegliendo l'ultima possibilità che rimane per salvare il realismo, si afferma che tale realtà è trascendente e che noi ne cogliamo soltanto i «fenomeni». E, effettivamente, Freud spiega il sogno e le psiconevrosi, e in generale tutto, con delle attività «noumenali». Ma un simile atteggiamento non può avere alcuna stabilità. Infatti l'affermazione che una certa realtà viene da noi conosciuta soltanto nei suoi fenomeni mette sempre in pericolo la realtà in questione, e, presto o tardi, ci si troverà costretti a limitare tale conoscenza unicamente ai fenomeni. Solo che questo «fenomenismo» deve essere completamente diverso da quello degli psicologi della «psicologia senz'anima», poiché la realtà cui si risale non è semplicemente l'anima sostanza, ma lo psichico in quanto realtà, cioè la vita interiore. Lo stesso Freud rimane un «dogmatico». Con l'aiuto del procedimento realista, appunto, va al di là dei fenomeni. Ma lo fa così ostensibilmente, il procedimento è articolato con una tale nettezza che il suo dogmatismo prepara la critica ad esso corrispondente, e preannuncia appunto una psicologia «critica», che si meriterà questo nome non tanto in quanto sarà una psicologia senz'anima, ma in quanto sarà una psicologia senza vita interiore, e, malgrado ciò, senza la benché minima traccia di fisiologia né di biologia. Si può dunque dimostrare che la dualità esistente all'interno della psicanalisi fra l'astratto ed il concreto non è semplicemente un'illusione ottica, ma che traduce la natura particolare dell'atteggiamento freudiano. Non soltanto, infatti, doveva verificarsi necessariamente nella psicanalisi il ritorno all'astratto, ma le teorie che da essa derivano implicano anche, così come sono e a dispetto della loro forma tecnica astratta, quell'atteggiamento stesso che sta alla base della psicologia concreta. In poche parole, non è in noi che si può constatare un'«illusione ottica», bensì in Freud stesso. Se la posizione di Freud è, in questo modo, determinata con una sufficiente precisione, quella che non sembra esserlo è proprio la stessa psicologia concreta. Tutto ciò che noi finora sappiamo di essa in positivo è il modo in cui essa definisce il fatto psicologico come un segmento di quel «dramma» costituito dalla vita dell'individuo particolare, e il metodo che essa pretende usare per studiarlo. Ma non abbiamo ancora visto in quale modo essa realizzi le sue promesse; in altri termini, non abbiamo ancora visto la psicologia concreta all'opera nell'analisi del «dramma», con delle nozioni appropriate al suo piano ed alla sua ispirazione. E affinché il carattere astratto delle speculazioni freudiane non possa essere considerato come la dimostrazione dell'impotenza teorica della psicologia concreta quale noi la concepiamo, occorre far vedere come fra tutte le nozioni e ipotesi che Freud fu indotto a costruire se ne trovino alcune che, pur essendo poste sullo stesso piano delle altre, sono già quelle tipiche della psicologia concreta. 3. Per far vedere la psicologia concreta all'opera, dobbiamo mettere in evidenza come siano valide un certo numero di nuove nozioni che Freud fu indotto a introdurre in seguito all'analisi dei sogni e delle nevrosi, e che hanno un ruolo preponderante nelle spiegazioni tecniche. Ne prendiamo in considerazione essenzialmente due: l'identificazione ed il complesso di Edipo. L'identificazione consiste nel fatto che «l'io assorbe, per così dire, le proprietà dell'oggetto» (Psicologia collettiva ed analisi dell'io). Un bambino, «avendo avuta la disgrazia di perdere un gattino, dichiarò immediatamente di essere lui stesso il gattino e si mise a camminare a quattro zampe, a rifiutarsi di mangiare a tavola, ecc.» [ibid., p. 123). Non bisognerebbe confondere l'identificazione freudiana con la imitazione della psicologia classica, che è «il passaggio immediato da una percezione, nella maggior parte dei casi visiva, a un movimento che riproduce la causa della percezione». Per quanto la nostra definizione possa essere discussa allo scopo di sostituire i termini «statici» con dei termini «dinamici», una cosa è chiara, che cioè una simile definizione, facendo astrazione dal significato stesso dell'atto in questione, è interamente formale: non si va al di là del meccanismo generale dell'atto. Il fatto che tale meccanismo venga descritto in termini di elementi o in termini di atteggiamenti non cambia nulla al suo carattere formale. Per di più, il soggetto viene eliminato non solo perché nella maggior parte dei casi si farà dell'imitazione un piccolo dramma in terza persona i cui attori sono costituiti dagli elementi, ma anche perché, dato appunto il formalismo, non si tratta affatto di considerare l'imitazione come qualcosa che appartenga, nei suoi termini esatti, anche minimamente alla vita dell'individuo particolare. Ben lungi dall'orientarci verso questa via, l'imitazione, al contrario, ce ne allontana: essa appare come una funzione generale, come l'abitudine, ad esempio, o la memoria, e tutto ciò che la psicologia classica è capace di fare, è di ricercarne il meccanismo generale, di descrivere il suo sviluppo generale, in poche parole di studiarla in sé. L'identificazione è, al contrario, essenzialmente un atto che ha un significato: si tratta appunto, per il soggetto, di essere qualcuno diverso o qualche cosa di diverso da se stesso, si tratta di conformarsi a un modello adottandone per così dire tutta la dialettica. «La genesi dell'omosessualità maschile — dice Freud (op. cit., p. 123) — è, per lo più, la seguente: il bambino è rimasto per molto tempo, e in un modo molto intenso legato alla madre, nel senso del complesso d'Edipo. Una volta raggiunta la pubertà viene il momento in cui il bambino deve cambiare sua madre per un altro oggetto sessuale. Si produce allora un cambiamento d'indirizzo improvviso: invece di rinunciare alla madre egli si identifica con lei, si trasforma in lei e cerca oggetti suscettibili di sostituire il suo proprio io e che egli possa amare e curare come egli è stato amato e curato da sua madre. È un processo di cui si può constatare la realtà quando si vuole e che naturalmente resta totalmente indipendente dall'ipotesi che potrebbe farsi circa le ragioni e i motivi di questa improvvisa trasformazione. Ciò che colpisce in questa identificazione è la sua ampiezza: sotto un rapporto importantissimo, particolarmente dal punto di vista del carattere sessuale, l'individuo subisce una trasformazione secondo il modello della persona che fino ad allora era stata oggetto della sua libido». Stando così le cose, ben lungi dall'esserne stato eliminato, il soggetto si trova integralmente implicato nell'identificazione, la quale diventa non soltanto una parte effettiva della sua vita, ma anche la chiave di tutta una serie di atteggiamenti che possono essere capiti soltanto facendo ricorso ad essa. Per questo stesso motivo l'identificazione ci riconduce sempre alla vita dell'individuo particolare, poiché soltanto quest'ultima potrà permetterci di ricostruirne il significato. L'identificazione è dunque una nozione ben concreta: essa è mescolata allo stesso dramma dell'uomo; in altri termini, essa è un segmento della vita dell'individuo particolare. Il complesso di Edipo è una nozione ben nota e possiamo limitarci ad una semplice allusione. Il bambino ha per sua madre un attaccamento affettivo di natura erotica, nel senso molto largo, d'altronde, che questo termine ha per gli psicanalisti. A un certo punto «il bambino si accorge che suo padre gli sbarra la via verso la madre; questa identificazione col padre prende da questo fatto il colorito di ostilità e finisce per confondersi col desiderio di sostituire il padre, anche presso la madre» (p. 119). Certo, il termine stesso di complesso porta in luce la psicologia della Vorstellung, poiché per Freud il complesso è una rappresentazione carica di una grande intensità affettiva. Ma non si tratta più d'altro, e questa volta sarà inutile dimostrarlo che di una questione di stile. Sta di fatto che il complesso di Edipo non è né un «processo» né, ancor meno, uno «stato», bensì uno schema drammatico, o, se si preferisce, un comportamento umano. Troviamo dunque nella nozione di identificazione e nel complesso di Edipo due nozioni che soddisfano alla condizione essenziale cui devono sottostarete nozioni della psicologia concreta: esse rimangono sul piano dell'Io, e sono fatte della stessa materia del dramma umano. Per questo stesso fatto esse non conservano più alcuna traccia del realismo della psicologia classica. Infatti né l'identificazione né il complesso di Edipo rappresentano dei dati di una percezione originale, e non si ricollegano ad alcuna realtà che sia in qualche modo chimica. La realtà cui esse si ricollegano non è altro, infatti, che la realtà del dramma umano, quella del significato che fa di un insieme di movimenti una scena umana. Né l'identificazione né il complesso di Edipo sono basati sulla considerazione di un insieme di stati interni o di meccanismi psicofisiologici, e non sono neppure degli «atteggiamenti mentali», dal momento che rappresentano dei procedimenti integrali ed esprimono la forma umana di una scena, e nulla più. In poche parole, queste nozioni hanno valore soltanto sul piano delle azioni drammatiche dell'uomo, e sono incompatibili con il realismo della «sesta essenza». L'identificazione ed il complesso di Edipo, d'altra parte, sono complessi soltanto dal punto di vista dell'atto che li costituisce. Ma in quanto nozioni esplicative essi sono, al contrario, nozioni primitive. La psicologia introspettiva descriverebbe gli stati interni che vanno al di là dell'identificazione: le rappresentazioni, i sentimenti, o, se si preferisce, gli atteggiamenti mentali e le qualità che sono implicite nel fatto di vivere la forma di un altro. Si giungerebbe così alle commoventi analisi della simpatia. La psicologia «sperimentale» si aggrapperebbe al lato positivo dell'identificazione. Studierebbe i meccanismi sensorio-motori e ideo-motori per elaborare dei miti fisiologici. Si ricadrebbe allora nell'imitazione. Ma, in tutti i casi, la spiegazione andrebbe al di là della stessa identificazione per cercare di ricostituirla con l'aiuto di elementi che sono al di sopra o al di sotto di essa, cioè con l'aiuto di elementi tanto psicologici che fisiologici. Per Freud, al contrario, l'identificazione e il complesso di Edipo sono delle nozioni elementari che debbono appunto servire all'analisi ed alla ricostruzione del dramma umano. Infatti l'identificazione ed il complesso di Edipo non sono soltanto i segmenti della vita di un individuo particolare, ma anche dei grandi schemi drammatici che hanno, per così dire, una loro propria dialettica, e che possono, di conseguenza, fornire la chiave di tutta una serie di atteggiamenti. Non è neppur necessario prendere in considerazione l'analisi dei sogni e delle psiconevrosi: la semplice osservazione della vita quotidiana mostra l'immensa importanza degli atteggiamenti espressi da queste nozioni. È sufficiente guardarsi attorno per vedere come tutta la vita dell'uomo ne sia attraversata, e come siano proprio essi a dirigerlo il più delle volte in quelle azioni che avranno un'influenza determinante su tutto il suo destino. Dal punto di vista tecnico, l'identificazione ci ha spiegato poco fa la genesi dell'omosessualità nell'uomo. Essa interviene ancora nella teoria freudiana dell'isterismo, dell'amore, nella spiegazione che egli ha tentato di dare dell'ipnosi, del carattere ecc. Per quanto riguarda il complesso di Edipo, è risaputo quale importante ruolo ad esso Freud attribuisca per le sue spiegazioni. Ed è una cosa da notarsi il fatto che l'identificazione ed il complesso di Edipo siano appunto delle nozioni esplicative. Infatti con ciò Freud soddisfa a quell'altra esigenza della psicologia concreta, per cui le nozioni più elementari debbono anche essere degli atti, degli atti dell'«io» e dei segmenti della vita drammatica5. Infatti invece di considerarlo come il punto di partenza di un'analisi nel senso della psicologia classica, fa di esse precisamente delle nozioni elementari con l'aiuto delle quali si potranno ricostruire dei comportamenti complessi, come, ad esempio, l'amore. Ma l'identificazione e il complesso di Edipo sono appunto atti dell'«io» e segmenti della vita dell'individuo particolare. E per questo fatto la psicologia concreta può analizzare il dramma, senza bisogno di trasformarlo in dramma impersonale: gli «elementi» di cui essa si serve sono, appunto, degli schemi alla prima persona. È vero tuttavia che le nozioni di cui noi ci siamo ora occupati non vengono concepite da Freud in conformità con quella che è la loro vera essenza. Esse vengono messe sullo stesso piano di altre che sono di origine perfettamente astratta. Per di più l'analisi elementare, nel senso della psicologia classica, non è neppur essa completamente assente: ne sono una prova sufficiente, da un lato, l'espressione «complesso di Edipo», e, dall'altra, la definizione freudiana del termine «complesso». E benché Freud sia indotto, nelle sue ultime opere, come ad esempio Psicologia collettiva ed analisi dell'io e Das Ich und das Es, a fondare sempre più le spiegazioni sulle proprie nozioni, senza soffermarsi troppo sull'analisi elementare, questa è ben lungi dall'essere assente, e la dualità sussiste sempre. Solo che questa dualità è, per così dire, molto più evoluta di quella che noi abbiamo constatato analizzando la teoria dell'inconscio. In quel caso, infatti, l'atteggiamento fondamentale che rivela già l'ispirazione della psicologia concreta è ancora interamente ricoperto dalla forma tecnica, che è generata esclusivamente dall'astrazione. Qui, invece, si tratta di nozioni che sono concrete anche nella loro forma tecnica, e sulle quali viene ad innestarsi, nonostante il fatto che d'altronde esse vengono utilizzate nel modo che più si conviene, l'atteggiamento astratto. Solo che queste nozioni non offrono più a quest'ultimo alcuna presa, e per quanto l'atteggiamento astratto da un lato e l'atteggiamento concreto dall'altro si trovino indistintamente confusi nell'esposizione, essi, per così dire, si cristallizzano in due atteggiamenti separati. Perché, a dire la verità, non occorre una grande perspicacia per accorgersi che, se applichiamo l'analisi elementare a nozioni come l'identificazione ed il complesso di Edipo, essa si distacca da sola da tali nozioni, e che ad attirare l'attenzione sono soltanto le nozioni stesse ed il modo in cui esse ci permettono di compiere l'analisi del dramma. Che queste nozioni siano definitive o no, o che abbiano precisamente la stessa importanza che Freud attribuisce loro, è cosa che, dal punto di vista della vitalità stessa della psicologia concreta, non ha alcuna importanza. L'importante è che esse possano dimostrarci come la psicologia concreta non sia soltanto capace di formulare delle esigenze che poi non può soddisfare e di concepire un metodo che poi è la prima a non poter applicare, ma come essa sia precisamente in grado di analizzare, ed in conformità con le proprie esigenze, quel dramma umano che essa considera il campo di studio per eccellenza della psicologia. Queste nozioni ed il modo in cui Freud se ne serve nelle sue spiegazioni ci dimostrano come una psicologia che non si occupi che del dramma umano, e che, nelle sue spiegazioni, faccia uso soltanto di nozioni che, per quanto «elementari», rappresentano già degli atti umani — come, in poche parole, una psicologia che non abbandona mai né nella ricerca dei fatti, né nella loro elaborazione teorica, questo piano — sia perfettamente vitale, dal momento che si può dire che è già in vita. Una volta risolta in questo modo la questione di principio, tutto il resto non è altro che questione tecnica.
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